Diciamola tutta: a noi piace dire la nostra, e fare battaglie comodamente seduti sul divano, lamentarci del governo senza andare a votare e giudicare gli altri senza voler essere giudicati.
E’ un po’ nella natura umana e un po’ di più in quella degli italiani. Siamo una democrazia che ama il re. A noi piace l’uomo (o la donna) forte che ci dica cosa si fa e cosa non si fa, che ci tolga dall’impiccio di doverci esporre in prima persona, al quale delegare responsabilità, doveri e iniziative. L’uomo forte ci dà l’alibi di essere deboli, la possibilità di deresponsabilizarci, il diritto di non fare. Accarezza la nostra coscienza, tanto quando non ne possiamo più possiamo sempre buttarlo giù dalla torre e… sceglierci un nuovo uomo forte. Il re è morto, viva il re.
Il Web 3.0, oltre a decentralizzare, promette anche una grande disintermediazione. Disintermediare è in sostanza l’assenza di un’autorità centrale ed una sorta di auto-gestione. Ma siamo davvero pronti ad auto-governarci?
Nel mondo del Web 2.0, l’“uno vale uno” in politica ha mostrato qualche limite tecnico e pratico nella sua attuazione e alla fine la democrazia dal basso che non arriva a sintesi ha avuto comunque la necessità di identificare dei propri rappresentanti che potessero dialogare con altre forze politiche e portare avanti istanze raccolte dalla “base”. Insomma la disintermediazione ha dovuto fare un passo indietro per evitare che l’uno vale uno si trasformasse nel caos del tutti dicono di tutto.
La disintermediazione nell’informazione – trainata dalla potenza dei social network – ha fatto anche di peggio, finendo con il moltiplicare fake news, notizie non verificate e gogne mediatiche di ogni tipo come miccia accesa ad appiccare il fuoco di un sottobosco di analfabetismo funzionale che sembra coinvolgere il 70% degli italiani.
Anche nel periodo del Covid i risultati della disintermediazione sembrano non aver dato risultati apprezzabili, visto che la possibilità unica rispetto al passato di poter esprimere la propria opinione in modo libero, offerto dalla rete, si è trasformato in taluni casi nella presunzione che un’opinione potesse valere quanto un’evidenza scientifica e viceversa.
La libertà concessa dal web 2.0 ha quindi aperto questioni non ancora risolte del tutto o dove c’è stato bisogno di un intervento delle istituzioni centrali, come nel caso della privacy, del revenge porn, della diffamazione a mezzo social, e l’elenco potrebbe essere ancora lungo.
Si leggono di frequente su web o sui giornali entusiastici commenti e notizie di come il Web3 stia diventando (se non addirittura sia diventato!) già un fenomeno di massa. Possibile, mi sono chiesto?
Senza voler scomodare Everett Rogers, il primo che negli anni 60 del secolo scorso teorizzò il processo (e la curva) di adozione delle nuove tecnologie (curva nell’immagine), potremmo dire che – a parte la curiosità e l’entusiasmo degli early adopters, l’adozione della tecnologia dovrà ancora attraversare il buco nero del “chasm”, ovvero del triangolo delle Bermuda (o il burrone, se volete) dove le tecnologie si perdono prima di raggiungere il mass market.
Ne abbiamo viste in passato di tecnologie che si sono perse, sono state soppiantate da altre più funzionali o, semplicemente, hanno avuto bisogno di un processo di perfezionamento, semplificazione, “user centricity”, “user friendliness” o “user experience approach” per raggiungere la prima spiaggia di “pragmatici” che le hanno adotteranne.
Il mondo della telefonia mobile, internet e anche il web 2.0 con il suo universo dei Social Networks hanno attraversato gli stessi processi. Ricordi ancora qualcuno degli irriducibili del “io il cellulare non lo userò mai”? Ecco, loro rientravano tra i conservatori o gli scettici. Oggi forse usano anche loro un iPhone o un Samsung di ultima generazione (se vuoi divertirti a leggere alcune disavventure, clicca qui).
E chi non voleva iscriversi a Facebook? Sicuro che non abbia ceduto al richiamo di Instagram, Linkedin, …o addirittura di TikTok?
Il Web 3.0 promette di essere il regno della disintermediazione. E mentre alcune delle questioni aperte del Web 2 sembrano poter avere una soluzione, in altre potrebbero aprirsi voragini che necessiterebbero comunque di istituzioni garanti. O forse è un modo di pensare ancora entro determinati schemi?
Lo abbiamo visto anche con le monete virtuali, alle criptovalute tout-court si stanno facendo avanti anche le monete digitali emesse da istituti garanti o stati centrali (le cosiddette CBCD, se hai perso il pippotto sulle valute digitali leggi qui per approfondire)
La possibilità di concludere una transazione senza affidarsi necessariamente ad un’autorità centrale sembra in teoria una promessa molto valida. Per ora ci limitiamo ad analizzare questo aspetto, senza entrare nel merito di mondi contigui, adiacenti o inclusivi del web 3.0 come il metaverso o l’intelligenza artificiale.
Ma se il web 3.0 sarà mainstream, ovvero di tutti e adottato nella vita quotidiana da aziende, professionisti e persone comuni, significa che dovranno essere protette le persone più deboli (e ci sorprenderà essere in questa categoria!). Perché se c’è qualcosa che va storto, fosse anche il solo dimenticare la password di accesso al proprio wallet dove sono conservati tutti i nostri risparmi, in un modo senza intermediari a che numero possiamo telefonare per richiedere assistenza?